TESTI DI DIFFICILE INTERPRETAZIONE


Cibi puri e impuri: Romani 14

«Uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l'altro che è debole, mangia legumi. Colui che mangia di tutto non disprezzi colui che non mangia di tutto; e colui che non mangia di tutto non giudichi colui che mangia di tutto, perché Dio lo ha accolto ... Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro in sé stesso; però se uno pensa che una cosa è impura, per lui è impura» (Romani 14:2,3,14).
Se noi applichiamo la formula: «nulla è impuro in sé stesso» nel senso rigorosamente letterale, mettiamo l’apostolo Paolo in contraddizione con se stesso. Difatti, più avanti, l’apostolo, riconosce che certe cose sono realmente impure quando egli cita Isaia 52:11: «Perciò, uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d'impuro; e io vi accoglierò» (2 Corinzi 6:17).
La pratica religiosa dall’astensione della carne sacrificata agli idoli era largamente diffusa nel mondo antico, soprattutto nel mondo giudeo - cristiano. Infatti, i credenti di Roma erano turbati proprio come la comunità di Corinto, perché ritenevano che mangiare della carne che era stata offerta agli idoli, significasse in qualche modo contaminarsi e commettere idolatria.
Nella lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo scrive: «Quanto dunque al mangiar carni sacrificate agli idoli, sappiamo che l'idolo non è nulla nel mondo, e che non c'è che un Dio solo. Poiché, sebbene vi siano cosiddetti dèi sia in cielo sia in terra, come infatti ci sono molti dèi e signori, tuttavia per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo. Ma non in tutti è la conoscenza» (1 Corinzi 8:4-7).
Notiamo bene il modo in cui Paolo affronta il problema: «... alcuni, abituati finora all'idolo, mangiano di quella carne come se fosse una cosa sacrificata ad un idolo; e la loro coscienza, essendo debole, ne è contaminata. Ora non è un cibo che ci farà graditi a Dio; se non mangiamo, non abbiamo nulla di meno; e se mangiamo non abbiamo nulla di più. Ma badate che questo vostro diritto non diventi un inciampo per i deboli. Perché se qualcuno vede te, che hai conoscenza, seduto a tavola in un tempio dedicato agli idoli, la sua coscienza, se egli è debole, non sarà tentata di mangiar carni sacrificate agli idoli? Così, per la tua conoscenza, è danneggiato il debole, il fratello per il quale Cristo è morto» (1Corinzi 8:7-11).
Secondo l’apostolo Paolo, l’uomo forte o maturo, nel senso spirituale, è colui che mangia della carne che era stata prima sacrificata alla divinità, senza alcun timore, perché è consapevole della non esistenza degli idoli. Per lui anche se un alimento è stato offerto ad un idolo pagano, non cambia nulla, perché egli non ci crede.
L’uomo debole è invece chi «mangia solo legumi». Ovvero, una persona, forse, da poco convertita che non ha ancora superato completamente il suo timore verso le sue antiche divinità. Pertanto riteneva che mangiare della carne che era stata prima sacrificata agli idoli, significasse partecipare ad culto idolatra.
Gli alimenti in sé erano puri, ma per lui, a causa della sua conoscenza debole, erano Koinos, ovvero impuri, immangiabili.
In Romani 14:14, Paolo dice che non c'è nulla di impuro in sé sesso, e che ciò che si ritiene impuro è dovuto al fatto che i neofiti, in qualche modo sono ancorati alle divinità pagane: una specie di superstizione.
Concludendo, ambedue i gruppi: i deboli e i forti, restano nell’ambito della fede, ma i vegetariani sono deboli nella fede, ossia non hanno ancora la forza di affrontare la libertà che il cristiano possiede in Cristo come fanno invece gli altri che Paolo chiama «forti»; i primi sono «deboli» perché sono ancora ancorati a reminiscenze pagane, che condizionano la loro libertà acquisita in Cristo. La differenza non sta nella natura della carne, ma piuttosto nello spirito e nella comprensione dell’insegnamento evangelico. È una semplice questione di maturità spirituale.




Ha indurito i loro cuori: Giovanni 12:40

Gesù in Giovanni 12:40, cita il profeta Isaia: 6: 10. Il contesto immediato in cui si situa l’enunciato di Isaia, è quello relativo alla vocazione del profeta preceduta da una serie di dichiarazioni relative allo stato spirituale d’Israele e il suo castigo (capitoli 1-5; 6:1-9).
Da una parte abbiamo Israele che si è allontano da Dio, la sua condizione spirituale è tale che l’esilio è inevitabile; dall’altra, Dio che cerca di salvare il salvabile, inviando il profeta Isaia, il quale è chiamato a svolgere un’opera il cui risultato sarebbe stato deludente a causa dell’ostinazione del popolo. Il Signore in qualche modo avverte il profeta che la sua predicazione non avrebbe avuto il risultato sperato e che pertanto non deve cadere della trappola dell’illusione.
Nell’undicesimo versetto il profeta pone una domanda al Signore. «Fino a quando Signore», sottinteso la situazione spirituale rimarrà cosi. La risposta che il Signore da, una parte conferma l’irreversibilità dell’esilio babilonese, dall’altra, che tutto ha un tempo limitato, pari alla durata del castigo.
In breve e con semplicità, i versetti 9 e 10, esprimono una presa d’atto da parte di Dio dello stato spirituale del popolo e la necessità di essere purificato mediante castigo; e nel contempo rivelano un Dio che tiene sotto controllo la situazione, ma senza violare la libertà di scelta dell’uomo.
In Giovanni 12: 30-40, la situazione è analoga. Il popolo vive nelle tenebre, la luce arriva, ma la rifiutano, e pertanto Gesù ne prende atto e cerca di salvare il salvabile sapendo che il castigo sarebbe arrivato: Gerusalemme, ancora una volta sarebbe stata distrutta, e soprattutto Israele non sarebbe più stato il popolo eletto: un nuovo popolo sarebbe sorto dalle ceneri di un popolo che avrebbe rifiutato il Messia.
L’espressione “E l'Eterno indurì il cuor…” va compresa tenendo conto della cultura del tempo, del monoteismo e della preconoscenza di Dio. Quando si tiene conto di questi aspetti si evince che tale espressione è semplicemente una presa d’atto da parte di Dio nei confronti dell’uomo che è in rivolta conto Dio e che forse ha peccato contro lo Spirito Santo e che pertanto non c’è più nulla da fare per la conversione. Ad esempio: «E l'Eterno indurì il cuor di Faraone» equivale: Dio ha preso atto che nonostante i ripetuti inviti alla conversione, per il Faraone non c’era più nulla da fare, perché il Faraone aveva indurito il suo cuore.




Dalla morte alla  vita : Giovanni 5:24

"In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita". (Giovanni 5:24).
Un fattore decisivo nel giudizio finale sarà determinato dalla risposta che una persona darà a Cristo. Il Salvatore ha detto: «Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunziata sarà quella che lo giudicherà nell’ultimo giorno» (Gv 12:48). Le stesse parole di Cristo che danno vita eterna a chi le accetta (cfr. Gv 13:8), portano la morte eterna a coloro che le rifiutano: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5:24; 3:36).
L’affermazione «non viene in giudizio» (krisis) non significa che il caso dei salvati non venga considerato nel giudizio finale, poiché «tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo» (2 Cor 5:10; Rm 14:10). «Giudizio» significa l’opposto della «vita» eterna in Giovanni 5:24. Così, il significato del testo deve essere questo: i credenti non saranno condannati nel giudizio finale a motivo del loro costante «sentire» e «credere» (tempo presente in greco) in Cristo. Il sostantivo greco usato qui per giudizio (krisis) è spesso usato con il significato di condanna (Gv 3:19; 5:29; 2 Ts 2:12). Paolo esprime la stessa opinione con una parola congiunta quando dice: «Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» (Rm 8:1). Coloro che accettano Cristo non sono sotto alcuna condanna, né nella vita presente né nel giudizio finale, perché hanno ricevuto sia il perdono dei loro peccati sia la grazia di adempiere nella loro vita il «comandamento della legge» (Rm 8:4).





Il battesimo per i morti:
1Corinzi 15:29

Il testo in questione è un hapax , cioè è un'affermazione che ricorre una sola volta. Non avendo altri parametri cui far riferimento, diventa impossibile stabilire una prassi o una credenza basandosi su un singolo testo. Il brano presenta una sua complessità interpretativa perché farebbe riferimento a una pratica assente nel Nuovo Testamento, cioè il battesimo per procura. Le interpretazioni contraddittorie sono oltre la quarantina e questa molteplicità di soluzioni proposte dimostra l'incapacità di indicare una parola conclusiva e finale.

•  Il contesto

Per prima cosa occorre esaminare il contesto letterario in cui è inserita questa breve affermazione. L'argomento esaminato nel capitolo 15 è la realtà della risurrezione di Cristo e per conseguenza l'insegnamento relativo alla risurrezione dei morti. Dopo aver presentato una serie di fatti concreti circa le testimonianze di coloro che hanno avuto l'apparizione del risorto, Paolo inizia un «ragionamento per assurdo» mostrando quanto siano inutili la fede, la predicazione del Vangelo, la missione apostolica e perfino l'essere esposti alla persecuzione, se, come dicono alcuni, Cristo non sia risorto dai morti. Se, per assurdo, non esistesse la risurrezione, meglio sarebbe godersi la vita, mangiare e bere «perché domani morremo» (v. 32); perché affrontare inutilmente il rischio della persecuzione e della morte se non c'è risurrezione? (v. 30,31). «Altrimenti, che faranno quelli che sono battezzati per i morti»? (v. 29).

•  Battesimo per i morti

L'interpretazione più comune è che qui Paolo, senza schierarsi né a favore né contro, prenda atto che esiste, nella chiesa apostolica, la pratica del battesimo a favore del credente defunto. Questo strano battesimo si operava in Africa al tempo di S. Agostino (cfr. Patrologia Latina 45, 1597), citato anche da Fulgezio (cfr. PL 65, 379). È altresì presente in Germania tra il 1000 e il 1025 (cfr. PL 140. 734) e in molte sette ereticali. Oggi viene praticato dalla Chiesa di Gesù Cristo degli ultimo tempi a favore dei propri parenti defunti e non convertiti.
Il problema è che, leggendo in questo modo il testo di Paolo, si darebbe per scontato che il battesimo vicario, pratica eretica tardiva, risalirebbe al periodo apostolico. Ciò non può essere provato. Angel Manuel Rodriguez ( The Baptism for the dead , http://www.adventistbiblicalresearch.org/Biblequestions/baptismforthedead.htm) afferma che non esiste alcuna prova che il battesimo per procura sia praticato nel periodo apostolico, che non troviamo nell'insegnamento di Paolo relativo al battesimo il concetto secondo cui senza il battesimo non c'è salvezza e che il battesimo richiede un'adesione personale che il defunto non può più fare. Questo è sufficiente per poter escludere che si tratti di un «battesimo per procura». Come possiamo allora comprendere questa affermazione dell'apostolo?

•  Tentativi di spiegazione

Occorre tenere presente due punti importanti per comprendere questo passo: a. Paolo parla della risurrezione e ogni soluzione deve avere una correlazione con questo tema centrale di 1Corinzi 15b. L'interpretazione deve essere coerente con una corretta traduzione dell'espressione «per i morti» (huper ton nekron). È generalmente assodato che la preposizione huper (per) può significare anche «da parte di», «a nome di», «per amore di.». Tre possibili tentativi di spiegazione possono essere suggerite.
•  Battezzati in vista della risurrezione. Foschini (Those who are baptized for dead , The Hofferman Press, Vorcester, 1951, p. 132) propone una traduzione che utilizza una punteggiatura diversa. Traduce così: «Altrimenti, che faranno quelli che sono battezzati? Per i morti? Se i morti assolutamente non risorgono, perché ci si battezza? Per essi?». Egli spiega: «Paolo parte dalla premessa innegabile che si diventa cristiani non per godere della vita presente, ma per la speranza di quella futura. Ora nell'oltretomba si danno due possibili ipotesi: quella della morte eterna e quella della vita eterna. A quei cristiani di Corinto che negavano la risurrezione e la vita eterna, l'apostolo dunque domanda: "Ebbene, se non c'è la vita eterna, che fanno quelli che ricevono il battesimo? Si battezzano per i morti? Se i morti non risorgono affatto, perché ci si battezza? Per essi?", cioè per diventare, per raggiungere i morti che mai risorgeranno? Con questa assurda ma necessaria conclusione, l'apostolo prova ai suoi avversari l'incongruenza di essere cristiani e di negare la risurrezione e la vita eterna». È evidente che in questo modo Foschini elimina il battesimo per i morti.
•  Battezzati dopo la morte di un parente cristiano. Un'altra possibilità, sostenuta da diversi commentatori, è che coloro che «si fanno battezzare per i morti» sono i parenti e gli amici di un credente defunto e che, per il desiderio di incontrarlo alla risurrezione, abbracciano la fede cristiana e si convertono a Cristo, accettando il battesimo. Il loro battesimo diventerebbe «per amore dei» morti in quanto, con la loro scelta, rispondono al desiderio della persona cara che è venuta a mancare. È successo più di una volta che il decesso di una mamma credente o di un parente stretto abbia fatto riflettere un figlio o una figlia a tal punto da incominciare un percorso di fede che si conclude con la scelta del battesimo. In tal senso l'apostolo avrebbe potuto riferirsi a queste persone con il termine della conversione per amore dei morti e non certamente quello del «battesimo per i morti».
•  Il battesimo è usato in modo figurato. Altri commentatori attribuiscono un senso figurato al battesimo, che indicherebbe l'esposizione al pericolo o alla morte come in Matteo 20:22 e in Luca 12:50. In questo caso «quelli che sono battezzati» si riferisce agli apostoli, costantemente esposti alla morte, annunciando il messaggio della risurrezione (1 Cor 4:9-13; Rm 8:36; 2 Cor 4:8-12). Ai versetti successivi (v. 30-32), Paolo pone le domande: «E perché anche noi siamo ogni momento in pericolo? Ogni giorno esposti alla morte. Se soltanto per fini umani ho lottato con le belve a Efeso, che utile ne ho?». In questo caso «i morti» sarebbero i credenti defunti (di cui si parla ai vv. 12-18), ma potenzialmente, ogni credente vivente, che, secondo alcuni membri di Corinto, non avevano alcuna speranza di fronte alla morte (vv. 12 e 19). Il v. 29 potrebbe essere parafrasato in questo modo: «Ma se non c'è risurrezione, che cosa farebbero i messaggeri del Vangelo, se essi continuamente affrontano la morte al posto di uomini che sono destinati a perire?». È pura follia (v. 17) e inanità per loro affrontare la morte «se i morti non risorgono» (vv. 16,32). Il continuo coraggio degli apostoli di fronte alla morte è l'eccellente dimostrazione della fede nella risurrezione.

Conclusione

Non è possibile giungere a una conclusione; il testo non è chiaro. Su un punto invece possiamo stare sereni: il testo non propone il battesimo per procura. Non è possibile battezzarsi al posto di parenti o amici deceduti al fine di renderli partecipi della salvezza eterna. Il Nuovo Testamento afferma che il battesimo è preceduto da una fede personale in Gesù Cristo e che chi si battezza testimonia personalmente della confessione dei peccati (cfr. Atti 2:38; 8:3,37; Ezechiele 18:20-24; Giovanni 3:16; 1 Giovanni 1:9). Neppure gli uomini definiti «giusti» possono salvare loro stessi (Ezechiele 14:14,16; Salmo 49:7), figuriamoci se possono salvare dei defunti! (Giuseppe Marrazzo).




ANANIA E SAFFIRA

"Ma un certo uomo di nome Anania, con Saffira sua moglie, vendette un podere e, consapevole la moglie, sottrasse una parte del prezzo, portando il resto e deponendolo ai piedi degli apostoli. Ma Pietro disse: "Anania, perché Satana ha riempito così il tuo cuore da mentire allo Spirito Santo e sottrarre parte del prezzo del podere? Se non lo vendevi non rimaneva tuo e, venduto, non restava a tua disposizione? Perché ti sei messo in cuore una cosa simile? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio". Anania, udendo queste parole, stramazzò a terra e spirò; e gran timore si diffuse in tutti quelli che udirono. Levatisi allora i più giovani, lo avvolsero in un panno e, portatolo fuori, lo seppellirono. Non erano strascorse neppure tre ore quando entrò sua moglie che non sapeva nulla dell'accaduto. Pietro le parlò: "Dimmi, avete venduto il podere per il tal prezzo?". Ed ella disse: "Sì, a tanto". E Pietro a lei: "Perché vi siete messi d'accordo tra voi di tentare lo Spirito Santo? Ecco alla porta i piedi di color che hanno seppellito tuo marito e porteranno via pure te". Ed ella cadde all'istante ai suoi piedi e spirò: quei giovani, rientrati, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. E gran timore si diffuse su tutta la Chiesa e su tutti quelli che udirono queste cose"
(Atti 5,1-11).




Questa terribile vicenda di disonestà punita, raccontata con un efficace crescendo drammatico, segue immeditamente i versetti che descrivono in modo idilliaco l'organizzazione comunista dei primi cristiani: nella comunità regnano una concordia e un'armonia assolute, tutti i beni sono messi in comune, nessuno manca di nulla:


"Né infatti c'era alcun bisogno tra loro, perché quanti erano proprietari di poderi e case, li vendevano e, portando il prezzo delle cose vendute, lo deponevano ai piedi degli apostoli, i quali lo distribuivano a ciascuno secono il suo bisogno"(4,34-35).




L'autore degli Atti cita quindi due esempi che illustrano la condotta dei membri della comunità a proposito della comunione dei beni. Il primo è l'esempio positivo di un tale Giuseppe, soprannominato Barnaba, che ha venduto il suo pezzo di terra e ha dato il ricavato agli apostoli. Al comportamento esemplare di Giuseppe viene contrapposto quello disonesto di Anania a Saffira. I coniugi sono i primi membri della comunità dei cristiani di Gerusalemme a morire. E non muoiono di morte naturale, ma colpiti dal castigo divino per aver commesso un peccato su una questione di denaro!
Ma qual è esattamente la loro colpa? Per alcuni commentatori non si tratterebbe di furto o di appropriazione indebita, perché, come dice Pietro, il terreno era di proprietà di Anania così come il denaro ricavato dalla vendita. L'accusa formulata dall'apostolo è quella di aver mentito allo Spirito Santo e a Dio. Benché non sia esplicitamente affermato nel testo, il reato di Anania e Saffira consisterebbe nell'aver dichiarato il falso circa la somma che avevano ricavato dalla vendita del loro terreno. Ma la punizione capitale sembra del tutto sproporzionata rispetto alla colpa. Inoltre una tale severità è estranea alla teologia generale degli Atti, che contempla per il peccatore la possibilità di pentirsi e quella del perdono concesso da Dio. Anche la severità e la violenza di Pietro contrastano con l'immagine benevola che di lui è tratteggiata nei primi capitoli del libro. Quale è dunque il senso del racconto?
I Padri della Chiesa spiegavano la storia di Anania a Saffira attraverso il procedimento della tipologia, che consiste nel considerare un episodio dell'Antico Testamento come prefigurazione di un episodio del Nuovo Testamento. In effetti la storia dei due coniugi disonesti sembra modellata sulla vicenda di Acan raccontata nel libro di Giosuè. Dopo essere entrati nella terra promessa e aver conquistato Gerico, gli Ebrei subiscono un'inaspettata sconfitta da parte degli abitanti del villaggio di Ai. Giosuè chiede la ragione di questo rovescio militare a Dio, che gli risponde con queste parole:


"Israele ha peccato, hanno trasgredito alle mie condizioni che avevo imposto, hanno preso delle cose votate alla distruzione, rubando e mentendo, e le hanno messe nei loro bagagli. Non potranno perciò i figli di Israele resistere di fronte ai loro nemici; volteranno le spalle di fronte ai loro nemici, perché sono divenuti anatema; non continuerò ad essere con voi, a meno che voi sterminiate l'anatema di mezzo a voi."




In seguito a un sorteggio si scopre che Acan è colpevole di aver segretamente tenuto per sé parte del bottino che Dio aveva ordinato di votare alla distruzione. Perciò Acan, una volta scoperto, viene lapidato insieme a tutta la sua famiglia e tutti i suoi beni distrutti con il fuoco. Certo, le analogie tra la vicenda del libro di Giosuè e quella degli Atti sono notevoli. Eppure restano della differenze non trascurabili: mentre nel caso di Acan si tratta di appropriazione indebita di un bene consacrato a Dio, abbiamo visto che il reato di Anania e Saffira è di natura diversa. Inoltre l'aspetto "miracoloso" della punizione è molto più accentuato nel racconto degli atti: è la voce stessa di Pietro a determinare la morte istantanea prima di Anania e poi di sua moglie.
Si è supposto anche che questo passo avesse una funzione eziologica: sarebbe cioè servito a spiegare la morte improvvisa di due membri della comunità cristiana prima del ritorno di Cristo, quando si pensava che la morte fosse stata sconfitta. Anania a Saffira erano incorsi nel giudizio divino perché avevano mentito a Dio. Ecco la ragione della loro morte misteriosa.
Ma questa ipotesi non ha convinto tutti i commentatori, che hanno sperato di poter chiarire l'episodio attraverso il confronto con le leggi sulla proprietà privata in vigore tra gli Esseni e nella comunità di Qumran. Che gli Esseni praticassero una forma di comunismo è noto da un passo dello storico Flavio Giuseppe:


"Non curano la ricchezza ed è mirabile il modo come attuano la comunità dei beni, giacché è impossibile trovare presso di loro uno che possegga più degli altri; la regola è che chi entra metta il suo patrimonio a disposizione della comunità, sì che in mezzo a loro non si vede né lo squallore della miseria né il fasto della ricchezza, ed essendo gli averi di ciascuno uniti insieme, tutti hanno un unico patrimonio come tanti fratelli."




Un celebre rotolo, scoperto nelle grotte del Mar Morto nel 1947 e contenente la regola comunitaria di un gruppo giudaico, illustra i vari esami che un aspirante membro della setta doveva superare per essere ammesso a pieno titolo. Ecco cosa accade dopo l'ispezione che ha luogo alla fine del secondo anno di noviziato:


"Se prevale la decisione di incorporarlo nella comunità, lo iscriveranno nella regola del suo rango fra i suoi fratelli, per il giudizio, per la purità e per la messa in comune dei suoi beni [...] E queste sono le norme con le quali si giudicherà nelle indagini della comunità secondo i casi. Se si trova tra di loro qualcuno che ha mentito dolosamente riguardo ai beni, lo separeranno per un anno dal puro pasto dei Molti e per punizione sarà messo a un quarto del suo pane." (trad. C. Martone).




Si deduce che chi si univa alla comunità consegnava tutti i suoi beni e che durante il periodo di prova la comunità acquisiva i diritti sulla totalità dei beni del candidato. Di conseguenza per chi aveva perso il possesso dei propri beni, il fatto di occultarne una parte significava commettere un furto ai danni della comunità. Non è precisamente questo il reato commesso da Anania e Saffira? Se si accetta questo parallelo con il dirito in vigore a Qumran, non si tratterebbe soltanto di menzogna, ma di un furto effettivo da parte dei due protagonisti della nostra storia.
Il confronto con la regola della comunità di Qumran lascia aperto però il problema dell'eccezionale severità della punizione e del carattere inappellabile del giudizio divino. Il qumranita disonesto, privato di una parte del suo nutrimento giornaliero, avrà perso tutt'al più qualche chilo, ma non avrà rischiato la pena capitale.
Risultati più convincenti nell'interpretazione del nostro passo sono stati raggiunti grazie a un'analisi dell'ideologia generale che anima il libro degli Atti. Lo scopo implicitamente ammesso dall'auore è quello di suscitare nei lettori lo stesso timore che ha colto quelli che hanno assistito alla morte di Anania e sua moglie ai fatti o ne hanno sentito il racconto. Contro cosa ci vuole mettere in guardia l'autore? Forse, Luca vuol far sapere al lettore che il peccato originale della Chiesa è un peccato legato al denaro, un argomento che sta molto a cuore all'evangelista, ad esempio quando denuncia l'orgoglio dei ricchi nel Magnificat


"Il Signore ha colmato di beni gli indigenti e ha congedato i ricchi a mani vuote) o quando esalta l'offerta della vedova povera In verità vi dico: questa povera vedova ha messo più di tutti gli altri, perché costoro hanno preso dalla loro abbondanza per fare l'offerta, mentre costei ha preso dalla sua miseria per offrire tutto quello che aveva per vivere." (Lc 21,1-4)




Solo tenendo presente questa concezione del denaro è possibile capire il significato della comunione dei beni nella teologia degli Atti. Non si tratta semplicemente di un ideale filosofico, come quello predicato dai pitagorici o da altre scuole filosofiche greche, bensì dell'aspirazione messianica a un mondo senza povertà, come già esigeva l'Antico Testamento: "non vi saranno poveri presso di te"(Dt 15,4). La radicalità di questo progetto richiede uno zelo e un'onestà assoluti da parte di tutti i membri della comunità. La disonestà dei singoli infatti può minacciare questo ideale e perciò viene così duramente sanzionata da Dio. In questo senso la punizione di Anania a Saffira prefigura da una parte il giudizio escatologico che verrà pronunciato contro i ricchi che non hanno assunto le loro responsabilità verso i poveri, dall'altra il giudizio contro la comunità che ha derogato al suo ideale di far scomparire la povertà in seno al popolo di Dio.1 







“Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad Oriente”
“Giardino” è il senso originale ebraico: “gan”. L’antica versione greca della Bibbia, ha tradotto questo termine con “paràdeisos”, vocabolo di origine persiana, dal quale è derivato il nostro termine corrente ““Paradiso”. Il “giardino” non ha una collocazione precisa, ma è un’immagine che rappresenta il mondo in armonia con l’uomo e l’universo intero. L’autore biblico, infatti, fa diramare da quel punto i quattro fiumi che, come i quattro punti cardinali, definiscono tutto il mondo nella sua bellezza e fecondità. Il Tigri e l’Eufrate sono ben noti, come fiumi della Mesopotamia; gli altri due: Pison e Ghicon sono ignoti (l’Indo e il Nilo?). Il racconto al di là dei simboli e delle immagini, dice semplicemente che Dio ha creato l’uomo in una condizione di felicità, in un “paradiso”; questo termine però va inteso nel giusto senso: Dio ha creato la felicità, e il paradiso è nell’uomo stesso. Peccato, che abbiano voluto cercare il Paradiso su una carta geografica, in terre più o meno lontane: la felicità paradisiaca si trova nel cuore dell’uomo.





(Gen. 18, 1-33)
Passiamo ora a una narrazione di grande suggestione, ambientata sotto le tende del deserto. Sappiamo già che Abramo risiede nella zona di Ebron, presso le querce di Mamre (Gen. 13,18).
E’ su questo sfondo che ora la tradizione Jahwista sviluppa il nostro racconto che tanta eco ha avuto nella storia dell’era cristiana.
L’episodio riflette una concezione diffusa non solo nell’Antico Oriente ma anche nel mondo greco-romano: quella della visita compiuta dalla divinità sotto spoglie umane a un fedele. All’os­pitalità premurosa offerta dal credente spesso si accompagnava la promessa di un dono: il figlio sospirato. Si tratta, quindi, di un altro modo per rappresentare il tema della discendenza di Abramo, tema tanto caro al libro della Genesi. 
L’ospitalità presso gli antichi orientali era uno dei dove­ri fondamentali, ma era anche considerata un onore per chi ospitava. Ancora oggi, presso i beduini (nomadi che vivono nel deserto), l’ospitalità è una consuetudine fondamentale. Anche il N.T. raccomanda l’ospitalità (Rom. 12,13) e la Lettera agli Ebrei (13,2) invita a praticare l’ospitalità richiamando proprio l’episodio di Gen.18.
L’episodio dei tre personaggi misteriosi che si profilano davanti alla tenda di Abramo, è stato interpretato liberamente da molti Padri della Chiesa in riferimento al mistero della Trinità. Questo perché nel testo si parla di tre uomini, ma Abra­mo (v.3) parla rivolgendosi ad uno solo (“Abramo vide tre uomini e ne adorò uno solo”, dice S. Ambrogio). Si è visto qui, un ri­ferimento all’unicità di Dio in tre persone.
La tradizione giudaica, invece, identifica i tre uomini con figure celesti: gli angeli Michele, Gabriele e Raffaele. Il testo, però, così com’è, vuole invece solo raccontare una “teofania” (“manifestazione di Dio”) collegata alla promessa di un figlio fatta ad Abramo, attraverso messaggeri divini; infatti lo stile (Jahwista) è antropomorfico, cioè una raffigu­razione di Dio sotto spoglie umane, ciò è confermato dal fatto che Abramo (v.3) si rivolge a loro come se fossero un’unica figura (“Mio signore, non passare oltre senza fermarti”).
La narrazione è inizialmente tutta contrassegnata da sontuo­sa ospitalità che è offerta da Abramo, secondo i canoni dell’ac­coglienza cordiale riservata all’ospite in Oriente. Abramo, corre, si affretta, anche Sara si mette in fretta al lavoro e il servo si affretta a macellare il vitello già tenero. Tutta la scena è piena di tensione e di movimento. Focacce, carne, latte acido e fresco sono imbanditi agli ospiti seduti a mensa.
Tre staia di farina”, “staia” in ebraico “seah” indica una misura di capacità usata per i solidi, che può equivalere a 7 o anche a 12 litri circa. “Il latte” usato era soprattutto quello di pecora o di capri, “fresco”, cioè appena munto, veniva usato come bevanda dissetante. Il latte veniva anche conservato in otri, dove inacidiva rapidamente, ma era comunque bevuto volentieri dai nomadi per rinfrescarsi.
Abramo - che all’inizio del racconto era seduto - ora è in piedi, in atteggiamento di servizio. Durante il pranzo i tre personaggi prendono l’iniziativa di spiegare la loro pre­senza. La conversazione ruota attorno alla promessa di un figlio.
Abramo ormai vecchio e Sara in menopausa, e senza rapporti sessuali col marito, rimangono scettici di fronte a quell’annunzio così circostanziato (“tra un anno Sara avrà un figlio”). Sara che, come donna, non è ammessa al dialogo e al banchetto ma sta all’ingresso della tenda, pronta al servizio; all’udire quelle parole “ride”. A questo punto si profila in quegli uo­mini il volto del Signore che interpella la donna sulla sua incredulità: “C’è forse qualche cosa che sia impossibile per il Signore?” (v.14). Si assiste, allora, a una schermaglia tra il Signore e Sara proprio attorno a quel riso che esprimeva il dubbio umano. Ritorna, quindi, il simbolo del “ridere” incre­dulo, che avevamo già incontrato nel capitolo precedente, là messo sulle labbra di Abramo (17,17). Tutto questo prepara il significato che si attribuirà al nome “Isacco” (verbo ebraico “Sahaq” - “ridere”), il figlio che alla fine nascerà a Sara e ad Abramo; come vedremo, quel nome sarà interpretato come “un sorriso del Signore” (Gen. 21,6).
Ora è il momento del congedo. Abramo accompagna i tre ospiti fin verso il Mar Morto e da un monte mostra loro il panorama di Sodoma, la regione prospera ove risiede anche suo nipote Lot, dopo la sua separazione dal clan di Abramo (descritta in Gen. 13). E’ qui che la scena si carica improvvisamente di ten­sione e di paura. Il Signore, che si cela in quei tre uomini, decide di rivelare al suo fedele Abramo ciò che egli sta per compiere nei confronti degli abitanti malvagi e corrotti di quella regione.
Dalle città di Sodoma e Gomorra sale a Dio come un grido di peccato e di ingiustizia. Con un’immagine umana si presenta allora il Signore in ispezione: egli la compie attraverso i tre personaggi che Abramo aveva appena ospitato.
Ma il patriarca, consapevole della tragedia imminente, apre una specie di trattativa con Dio per allontanare il rigore della sua giustizia. Alla base di questa discussione sta un interro­gativo preciso: davanti a Dio ha maggiore peso la cattiveria di molti o la bontà di pochi? Dio è pronto a dare più importanza al bene, anche se minoritario, perché il suo amore è superiore alla giustizia, come spesso si dirà nella Bibbia.
Abramo ha, quindi, fiducia in Dio e nell’uomo. Purtroppo, però, la storia umana si rivela come un tessuto continuo di ma­le e di peccato. Abramo si presenta ora come l’intercessore, che cerca di sollecitare l’amore e la misericordia del Signore.
In questo cap. 18 della Genesi, ci viene presentato Abramo che si appella alla giustizia di Dio intercedendo per Sodoma e Gomorra. Le grandi figure religiose di Israele sono spesso presentate nella Bibbia come intercessori: Mosè intercede per il suo popolo (Esodo 32, 30-35; Numeri 14, 13-20; 16, 20-22) e così Samuele (1 Sam. 7,5; 12, 18-19). Quando si vuole affer­mare che una decisione di Dio è irrevocabile, si dice: “Anche se si presentassero Mosè e Samuele al mio cospetto, non avrei cuore per questo popolo” (Geremia 15,1).
Abramo intercede a favore di queste città con profonda umil­tà: “io che sono polvere e cenere”;questi due elementi (polvere e cenere) nell’A.T. sono un segno di pentimento e penitenza (Giobbe 42,6; Giona 3,6). Abramo esprime così la sua indegnità di creatura di fronte al suo Signore. Il dialogo tra Dio e Abra­mo è tutto ritmato, da un lato, sul progressivo assottigliarsi dei giusti proposti, per fermare il giudizio divino su Sodoma e Gomorra (50 - 45 - 40 - 30 - 20 - fino a 10 giusti).
Nella concezione degli antichi il numero 10 indica il più piccolo dei gruppi. Se sono meno di 10, i giusti saranno salvati singolarmente. Nella tradizione giudaica “dieci” è il numero minimo di uomini richiesto per poter celebrare la preghiera liturgica.
D’altro lato, invece, si marca il progressivo ardire di Abramo: “ Vedi come ardisco parlare... Non si adiri il mio Signore... Il mio Signore non voglia irritarsi...”.