OPINIONI

Il fariseo disse tra sé: «Se costui fosse un profeta,
saprebbe chi è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». (Lc 7,39)

(rispondo a chi mi domanda perchè sono contro il legalismo e lo attacco con tutte le mie forze, parlo per esperienza)

L’invocazione , mostra con quale atteggiamento possiamo accostar­ci alla Santa Cena,  essa è azione di grazie per la misericordia di Dio che viene rivelata in Gesù Cristo. Uno dei motivi che contraddistinguono il vangelo di Luca è il fatto che in Gesù Dio ha mostrato il suo volto di bontà. Nel rac­conto della peccatrice, salvata dalla sua fede, tutti noi possiamo rivederci. E a tutti viene rivolto l’invito di proclamare la buona notizia del perdono. Non possiamo contemplare questa scena da indifferenti, perché essa ci in­terpella sul senso della nostra fede e della nostra vita.

L’episodio della peccatrice non giunge come un fulmine a ciel sereno. Infatti, nei versetti che precedono il brano evangelico ,  Gesù contrappone ai farisei e ai dottori della leg­ge le persone semplici del popolo e i peccatori che han­no accolto l’esortazione del Battista alla conversione e si sono sottoposti al ravvedimento. [1] Il  brano evangelico ne è la conferma. Alla figura della peccatrice si contrappone quella di Simone il fariseo. Non dimentichiamo che Luca è l’evangelista che, più degli altri, ama presentare la «buona novella del regno» come annuncio ed esperienza della miseri­cordia di Dio per tutti, senza altri confini che non sia­no quelli della mancanza d’amore.
Gesù, contrariamente ai Farisei[2] non teme di essere toccato dalla peccatrice che compie gesti di autentico e umile pentimento. Lavare ed ungere i piedi è compito del servo, dello schiavo. Baciare i pie­di era il gesto che esprimeva il massimo ringraziamen­to verso qualcuno a cui si deve la vita. Gesùnon chiu­de però la porta al fariseo Simone, ma con la parabola del creditore lo conduce a riconoscere che la salvezza non è frutto di una materiale osservanza della legge, ma della gratuità dell’amore.
Per evitare malintesi è opportuno tenere presente che non ci sono motivi sufficienti per identificare la peccatrice di questo episodio con Maria di Betania,[3]né con Maria di Magdala. Infine non è del tutto superfluo ricordare che al tempo di Gesù i rabbini non si lasciavano servire da una don­na. L’atteggiamento di Gesù manifesta anche il supera­mento di un discepolato esclusivamente maschilista.


Il brano dell’Antico Testamento è stato chiara­mente scelto per annunciare il tema evangelico del perdono. L’esordio del brano  presuppone la conoscenza della parabola che Natan propone a Da­vide per fargli comprendere la gravità della sua colpa. È la storia di un uomo ricco che priva un povero dell’unica pecora che possedeva per fare bella figura di fronte ad un ospite.
Gesù userà la stessa pedagogia con Simone il fariseo. Il Vangelo non dice quale fu la reazione di Simone dopo la parabola di Gesù, ma sappiamo che Davide com­prese il male compiuto nel fare uccidere Uria per impa­dronirsi della moglie Betsabea. Davide riconobbe il suo peccato e fu perdonato.[4]
La Parola pone invece sulle nostre labbra il Salmo 31 che, in modo più generale, esprime la beatitudine, la gioia di chi si sente perdonato perché ha riconosciu­to le proprie colpe e confidato nella misericordia di Dio. Questo salmo è una eco di un testo : «Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo; chi le confessa e cessa di farle troverà misericordia».[5]


Casualmente il brano della lettera ai Galati si inse­risce armonicamente nella riflessione di questo brano del Vangelo. Paolo, lui stesso proveniente dal farisei­smo, si pronuncia contro il legalismo rassicurante e af­ferma che «l’uomo non e giustificato dalle opere della leg­ge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo».
Che significa la fede in Cristo se non credere alla forza dell’Amore che si è fatto carne?[6] Non ci si salva semplicemente perché si è meticolosi osservanti delle regole, ma perché si ama. Il cristiano non appartiene alla categoria di coloro che si vantano di avere le mani pulite soltanto perché non le hanno mai usate.

Annunciare
La verità evangelica non si comunica usando la cla­va, né minacciando castighi e sanzioni. Gesù ha annun­ciato la verità, conla misericordia e la compassione ver­sotutte le miserie umane senza per questo giustificarle. Sovente noi cristiani, pur in tutta buona fede, diamo l’impressione di essere più solleciti a condannare che non a comprendere e compatire, senza per questo ri­nunciare a testimoniare con le parole, e soprattutto con l’esempio, la bellezza del progetto di Dio sull’umanità.

Insegnare
Gesù non ha avuto timore di contaminarsi con i peccatori. Anzi proprio per essi il Verbo si è fatto car­ne e ha dato la vita sulla croce, mescolando il proprio sangue con quello di due briganti. Se il lievito e il sale non stanno nella pasta, non servono.
Il Vangelo non si annuncia separandosi, ma inse­rendosi nella storia quotidiana con l’assillo e l’amore di Cristo per questo mondo.

Esortare
Siamo sovente tentati d’identificare come buoni cristiani semplicemente coloro che sono fedeli ad alcu­ne norme rituali e alle tradizioni. Il cristiano, cioè il se­guace di Cristo che ne condivide i sentimenti e i com­portamenti, è colui che, guidato dall’amore, riesce sempre a vedere i lati positivi anche nelle situazioni più disastrate. Il cristiano è colui che sa vedere piuttosto ciò che unisce anziché ciò che divide.

Introdurre al mistero
«La tua fede ti ha salvata; va’ in pace». Le parole conclusive che Gesù rivolge alla donna peccatrice evo­cano immediatamente le parole del congedo . Anche l’assemblea  in mo­do specialissimo, è un incontro con Cristo che esige la conversione, l’umile confessione del nostro peccato, per poter uscire dal luogo di culto perdonati, rinnova­ti nell’intimo, capaci di far sperimentare, attraverso la nostra persona, l’amore di Dio a quanti ci incontrano.

Interpretare i Testi


Ho peccato contro il Signore!
2Sam 12,7-10.13
In quei giorni, 7Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: lo ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho da­to la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiunge­rei anche altro.
9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è ma­le ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la mo­glie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti.
10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai di­sprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittita».
13Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

I libri di Samuele hanno raccolto e tramandato tradizioni sto­riche e biografiche risalenti al tempo del regno di Davide (1012-­972 a.C.). Ai suoi redattori deuteronomisti (VI secolo a.C.) va riconosciuto il merito di aver compiuto quest’operazione con tanta onestà da non tacere neppure su episodi che potevano costituire una pesante diminuzione di fama per il re caposti­pite della dinastia messianica. Da questi libri infatti emerge una duplice opposta considerazione del re Davide. Da un lato è descritto come un uomo dal cuore fedele al Signore, grande genio militare e politico, realizzatore dell’unità delle dodici tri­bù d’Israele. Per la benevolenza del Signore e per queste sue prerogative, egli è il destinatario di una promessa che stabilisce un ponte tra la perpetua durata dell’antica alleanza del Sinai e la perennità della nuova tradizione dinastica da lui inaugurata. D’altro lato, però, il testo non tace gli acuti contrasti interiori di questo sovrano, capace di abbinare acutezza geniale a smisurate passioni che lo portarono spesso a versare sangue.
Di tutti i peccati da lui commessi uno in particolare pesa co­me un macigno sulla coscienza di Davide: egli con studiata ini­quità ha orchestrato l’assassinio di Uria l’hittita per coprire il tradimento extraconiugale con Bersabea, la moglie di questo suo leale soldato. Consumato l’adulterio, per non compromette­re la propria immagine, il re aveva cercato di nascondere e nor­malizzare il frutto della loro relazione entrando in un abisso di male, più preoccupato di apparire pulito di fronte all’opinione pubblica che al cospetto di Dio.
Sorprende la coraggiosa denuncia del profeta Natan. Egli un tempo aveva riferito a Davide le promesse del Signore relati­ve alla perennità della sua discendenza e ora, senza reticenze servili nei confronti del potente, mette a nudo la sua coscienza ricordandogli impietosamente la trama degli eventi nei quali s’è comportato come un criminale. Messo di fronte al caso giu­diziario fittizio di una infame prevaricazione, il re reagisce con sdegno veemente contro il prepotente disonesto, pronunciando una sentenza di condanna che in realtà ricade sulla sua persona. Se le sue maliziose astuzie potevano nascondere il delitto agli occhi umani, esso non sfugge al Signore che «prova il cuore e la mente»[7] e si fa difensore dei deboli e delle vittime del potere.
L’elenco dei tanti benefici ricevuti dal Signore suona in que­sto contesto come un’implacabile aggravante, che rende anco­ra più grande il peccato di Davide: era lui prima la pecora pre­scelta da Dio e trattata come figlia, ma nella parabola i ruoli s’invertono ed egli è ora il ricco malvagio. Le parole di condanna confermano che l’onda lunga del male compiuto finisce sempre per ritor­cersi sul malvagio. In nessuna delle famiglie delle quali si parla nell’Antico Testamento la minaccia di Dio si è avverata in una serie di disgrazie spaventose come nella famiglia e nella discen­denza di Davide, la cui storia appare davvero scritta col sangue e con le lacrime.
Se il re fu protagonista di tanto studiata iniquità, è anche in­terprete di una confessione sincera, provvidenzialmente provo­cata dalla parola profetica che lo ha condotto a riconoscere la drammatica verità della sua vita: «Ho peccato contro il Signore!». Questa pagina sarebbe davvero angosciante se non si concludes­se con un messaggio liberatorio – «Il Signore ha rimosso il tuo peccato» – capace di sciogliere le paralisi del male, far ricono­scere la colpa, innescare un cammino di pentimento e peniten­za, squarciare orizzonti di novità. L’intera vicenda mostra che la maledizione della Leggenon ha corso là dove il cuore dell’uomo si lascia raggiungere dall’amore misericordioso di Dio.10]



Salmo 31,1-25.7.11

Togli, Signore, la mia colpa e il mio peccato.
È un salmo sapienziale, che esprime al tempo stesso pentimento per il peccato e ringraziamento per il perdono. L’uomo a cui viene perdonato il peccato è dichiarato beato. Nell’antichità il riconoscimento del peccato era legato alla narrazione delle proprie azioni negative, ma anche alla confessione della bontà di Dio. Non riconoscere il peccato significava volontà di persistere nell’iniquità. Perciò al centrò del salmo sta l’ammissione della colpa: «Confesserò al Signore le mie iniquità», assieme alla professione di fede in co­lui che «ha tolto la mia colpa e il mio peccato». In questo modo Dio viene percepito come rifugio e liberatore: «mi liberi dall’angoscia e mi circondi di canti di liberazione». Per essere resi giu­sti da Dio, i credenti possono rallegrarsi ed esultare. Gli stessi motivi ricorrono anche nei vangeli, di fronte all’agire di Gesù che libera dal Peccato e dall’angoscia.


Giustificati per la fede di Gesù Cristo
Gal 2,16.19-21
Fratelli, 16sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere del­la Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
19In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
 21Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

Questa ripresa  lettera ai Galati,  nella parte tralasciata Paolo, pro­vocato a sottolineare la legittimità del suo ufficio apostolico e la verità del suo vangelo, messe sotto processo nelle comunità della Galazia, ci ha offerto uno stupendo sguardo sulla propria autobiografia religiosa narrando la sua chiamata e i primi passi nella vita cristiana. Infatti, dopo la sua permanenza nelle comu­nità della Galazia, erano qui giunti da Antiochia alcuni cristiani legati ad un giudaismo intransigente e avevano messo in dubbio la validità del suo apostolato adducendo il motivo di differen­ze teologiche tra la sua predicazione, quella dei primi apostoli e della comunità delle origini. Per spiegare ai Galati l’origine remota di queste contestazioni, Paolo non ha esitato a narrare uno scontro che ebbe ad Antiochia con l’apostolo Pietro, per un comportamento non limpido da parte del primo degli apostoli che aveva creato disagio nella comunità.




Il passo che oggi viene proclamato presenta la conclusione e il vertice di quell’episodio e offre a Paolo l’occasione per an­nunciare il nucleo più profondo del suo “vangelo”: il grande de­siderio di Dio sull’uomo è di portarlo al livello del suo amore e questo è il senso di tutta l’opera di salvezza realizzata da Cristo. Noi siamo salvati – cioè siamo proclamati giusti da Dio – solo abbandonandoci a questo amore, come la peccatrice del raccon­to evangelico. Detto in altre parole, l’uomo deve liberarsi dalla presunzione di allegare le proprie opere come causa meritoria: solo se si abbandona all’amore gratuito di Cristo, scopre la forza della giustizia divina che lo salva. 


L’argomentazione assume to­ni piuttosto aspri, soprattutto quando Paolo mette sotto accusa la Legge, la cui osservanza – quand’anche fosse rigorosa e gene­rosa – è giudicata impotente a procurare la salvezza. L’apostolo dichiara di aver trovato dentro la Legge stessa le ragioni per le quali deve morire ad essa, allo scopo di vivere per Dio.
L’assoluta priorità dell’azione gratuita di Dio ha conseguen­ze di notevole peso nel vissuto del credente. La sua fede non è sforzo per acquisire meriti, ma risposta umile che lo impegna in una coerenza esistenziale con il dono ricevuto. Si comprende la singolare affermazione che rappresenta un punto centrale della mistica di Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me»


. Con la sua morte e risurrezione, Cristo crocifisso è la realtà che tutto determina; da questa morte nasce una nuova vita il cui soggetto, pur mantenendo la propria perso­nalità, non è più l’io vecchio e peccatore, ma il Cristo stesso che vive nel credente. Resa “giusta” dalla benevolenza di Dio, l’esi­stenza del cristiano sarà una vita conforme a quella di Gesù, la sua nuova giustizia sarà l’amore, alla maniera con la quale Cri­sto ha amato  consegnando se stesso per il bene dell'umanità.


Stefania c.





La vita retta

 

Ci sono state, in tempi diversi e fra popoli diversi, molte e dissimili concezioni sulla vita retta. Queste differenze sono spesso oggetto di discussione; specie quando non si è d'accordo sui mezzi per ottenere un dato fine. Molti giudicano la prigione un buon mezzo per la prevenzione del delitto; altri ritengono che sarebbe più efficace un'adeguata educazione. Talvolta questa diversità di opinioni può essere superata. Altre volte no.
Non sono in grado di dimostrare che il mio punto di vista sulla vita retta sia giusto; posso soltanto formulare la mia opinione, sperando che sia condivisa da molti. Il mio pensiero è questo: «la vita retta è quella ispirata dall'amore e guidata dalla conoscenza». Conoscenza e amore non hanno confini, cosicché una vita, per quanto retta, è sempre suscettibile di miglioramento. L'amore senza la conoscenza, o la conoscenza senza l'amore, non possono maturare una vita retta. Nel Medioevo, allorché la pestilenza mieteva vittime, santi uomini riunivano la popolazione nelle chiese per pregare, cosicché l'infezione si diffondeva con straordinaria rapidità fra le masse dei supplicanti. Ecco un esempio di amore senza conoscenza. La grande guerra è un esempio di conoscenza senza amore. In entrambi i casi le conseguenze furono disastrose.
Benché amore e conoscenza siano necessari, l'amore è, in certo senso, più fondamentale perché spinge l'intelligenza a scoprire sempre nuovi modi di giovare ai propri simili. Le persone non intelligenti si accontenteranno di agire secondo quanto è stato loro detto, e potranno causare danno, proprio per la loro ingenua bontà. La medicina suffraga questa opinione. Un bravo medico è più utile a un ammalato che non l'amico più devoto; e il progresso della scienza medica giova alla salute della comunità più che una ignorante filantropia. Tuttavia, anche al medico è necessaria la benevolenza, affinché tutti, e non soltanto i ricchi, possano approfittare delle scoperte scientifiche.
La parola «amore» indica una varietà di sentimenti; l'ho usata di proposito, perché desidero comprenderli tutti. L'amore come emozione (è di questo che sto parlando, perché l'amore «per principio» non mi sembra genuino) si muove fra due poli: il puro diletto della contemplazione e la pura benevolenza. Gli oggetti inanimati suscitano soltanto diletto; non possiamo infatti provare benevolenza per un paesaggio o una sonata. Questo genere di godimento è, presumibilmente, la fonte dell'arte. Di regola è più forte nei bambini che negli adulti, inclini, questi ultimi, a vedere gli oggetti con spirito utilitaristico. Questo diletto, o la sua mancanza, è all'origine dei nostri sentimenti verso gli esseri umani, se considerati semplici oggetti di contemplazione estetica.
L'altro aspetto dell'amore è la pura benevolenza. Negli uomini che, ad esempio, hanno sacrificato la vita nella cura dei lebbrosi, l'amore non può avere alcun elemento di diletto estetico. Nell'affetto dei genitori è implicita l'attrattiva dell'aspetto dei figli, ma esso non è meno forte anche se quest'attrattiva manca. Può sembrare strano chiamare «benevolenza» l'interesse di una madre per un figlio ammalato, poiché generalmente con questa parola s'intende una pallida emozione, in buona parte ingannevole. D'altronde, è difficile trovare una parola diversa per definire il sentimento con cui si desidera il benessere del prossimo. Il migliore esempio di questo sentimento lo si può trovare nell'affetto dei genitori. Negli altri casi questo desiderio è meno forte; tuttavia, spesso, l'altruismo è quasi un superamento e a volte un'esaltazione del sentimento familiare. È chiaro che parlo di un'emozione, non di un principio, e che escludo da essa quel senso di superiorità che vi è talvolta associato. Il termine «comprensione» esprime soltanto in parte ciò che intendo; perché esclude quel dinamismo che desidero vi sia accolto.
L'amore, nella sua più completa espressione, è una indissolubile combinazione dei due elementi, diletto e affetto. Tale può essere il sentimento di un genitore verso un figlio bello e bravo, o l'amore sessuale nella sua perfezione. In quest'ultimo, però, può esservi benevolenza soltanto se sostenuta da fiducioso possesso; diversamente la gelosia la distruggerà, pur accrescendo, a volte, l'attrazione estetica. Il diletto senza affetto può essere crudele; l'affetto senza diletto può raffreddarsi fino alla semplice superiorità protettiva. Una persona che vuole essere amata desidera suscitare entrambi i sentimenti, a meno che si tratti di persona particolarmente debole, come potrebbe essere un bimbo o un ammalato grave. In questi casi, la benevolenza è tutto ciò che si desidera. Al contrario la forza ricerca piuttosto l'ammirazione che la benevolenza; è il caso dei potenti o delle bellezze famose. Secondo la logica della biologia, noi cercheremmo l'affetto altrui in proporzione al nostro bisogno di aiuto o al nostro timore di subire il male. Ciò non è del tutto esatto. Siamo desiderosi di affetto anche per sfuggire al senso di solitudine, per essere, come si dice, «compresi». Qui entra in gioco la comprensione e non soltanto la benevolenza. Le persone il cui affetto ci appaga devono non soltanto volerci bene, ma anche capire cosa ci occorre per la nostra felicità. Qui si inserisce l'altro elemento della vita retta, cioè la conoscenza.
In un mondo perfetto ogni essere senziente dovrebbe rappresentare per gli altri l'oggetto del più completo amore, fusione perfetta di diletto, benevolenza e comprensione. Con questo non si vuol dire che, nel mondo reale, noi dobbiamo provare tali sentimenti verso tutti gli esseri senzienti. Ce ne sono molti che non suscitano in noi alcun diletto, ma, al contrario, un senso di disgusto; se ci costringessimo a vedere in essi una bellezza che non c'è, distruggeremmo il nostro gusto estetico. Tralasciando gli esseri umani, pensiamo al disgusto che proviamo per pulci, cimici e pidocchi; non si può, senza abbrutimento, provare diletto alla contemplazione di questi come di molti altri insetti. Alcuni santi, è vero, li hanno chiamati «perle di Dio», ma ciò che deliziava questi uomini era lo spettacolo della propria santità.
La benevolenza è facile a espandersi, ma anch'essa ha i suoi limiti. Se due uomini desiderano sposare la stessa donna, i sentimenti di colui che deve ritirarsi non possono essere certamente di benevolenza verso il rivale più fortunato. Descrivendo gli aspetti della vita retta, dobbiamo presumere anche un certo fondo di vitalità e di istinto animali: senza di questi l'esistenza diventa scialba e priva di interesse. Questo fondo dovrà essere affinato dalla civiltà ma non sostituito da essa. Gli asceti e i saggi estranei alle cose terrene non sono, sotto questo aspetto, esseri umani completi. In numero limitato, essi possono arricchire una comunità; ma in un mondo composto esclusivamente di tali saggi e asceti, si morirebbe di noia.
Queste considerazioni ci riconducono all'affermazione del diletto come elemento dell'amore completo. Nel nostro mondo il diletto è inevitabilmente selettivo, perciò non possiamo avere gli stessi sentimenti verso tutta l'umanità. Allorché sorgono conflitti fra diletto e benevolenza, essi, di regola, debbono venire risolti con un compromesso, non già con la completa resa dell'uno o dell'altra. L'istinto ha i suoi diritti e può fare le sue sottili vendette qualora essi siano conculcati. Perciò, chi aspira a una retta via non deve dimenticare i diritti dell'istinto.
Considerando la conoscenza un ingrediente della vita retta, non mi riferisco alla conoscenza etica, bensì a quella scientifica e dei fatti concreti. Se desideriamo raggiungere un dato fine, la conoscenza ce ne può indicare i mezzi, e tale conoscenza viene impropriamente considerata etica. Ma credo che non si possa decidere quale condotta sia giusta o sbagliata, senza riferirsi alle sue eventuali conseguenze. Stabilito un fine, è compito della scienza scoprire come raggiungerlo. Il giudizio sulle regole morali deve essere dato esaminando se esse sono capaci di realizzare i fini che noi desideriamo. Dico fini che desideriamo, non fini che «dovremmo» desiderare. Ciò che «dovremmo» desiderare è semplicemente ciò che altri vogliono che noi desideriamo. Questi «altri» normalmente sono i genitori e gli insegnanti, i poliziotti e i giudici. Se mi dite: «Dovresti fare così e così», l'efficacia della vostra esortazione sta nel fatto che io desidero la vostra approvazione, con le relative ricompense o che temo le vostre punizioni, a seconda del vostro giudizio. Dato che il comportamento deriva dal desiderio, è chiaro che le nozioni etiche sono importanti soltanto per l'influenza che esse esercitano su questo desiderio: desiderio dell'approvazione e timore della disapprovazione, queste potenti forze sociali che istintivamente cercheremo di trarre dalla nostra parte se ci sta a cuore qualche realizzazione di portata sociale. Quando dico che la moralità della condotta deve essere giudicata dalle sue eventuali conseguenze, intendo che noi desideriamo venga data l' approvazione a quella condotta, che può portare alla realizzazione del progresso sociale da noi auspicato e la disapprovazione a una condotta opposta. Al presente ciò non avviene; vi sono regole tradizionali, secondo cui l'approvazione e la disapprovazione non tengono conto delle conseguenze. Ne riparleremo.
La superfluità dell'etica teoretica salta agli occhi nei casi più semplici. Supponiamo, ad esempio, che il vostro bambino sia ammalato. L'amore vi spinge a curarlo, e la scienza vi dice come dovete fare. Non c'è una fase intermedia di teoria etica dove sia dimostrato che è giusto curiate il vostro bambino. La vostra azione deriva direttamente dal desiderio di un fine e, insieme, dalla conoscenza dei mezzi. Questo è ugualmente vero per tutte le azioni, siano esse buone o cattive. I fini differiscono, e la conoscenza è più adeguata in alcuni casi, meno in altri. Ma non c'è alcuna maniera concepibile per costringerci a fare cose che non desideriamo. È possibile soltanto modificare i nostri desideri con un sistema di ricompense e punizioni: importanti stimoli sono l'approvazione e la disapprovazione sociali. Perciò il problema posto al moralista e al legislatore è questo: «Come può essere stabilito un sistema di ricompense e punizioni che permetta di realizzare al massimo il contenuto della legge o della regola morale?» Se io dico che il legislatore legifera male, voglio semplicemente esprimere la mia opinione che i suoi desideri (o comandi) sono in contrasto con quelli di una parte della comunità alla quale appartengo. Al di fuori dei desideri umani non c'è alcuna misura morale. Ciò che distingue l'etica dalla scienza non è uno speciale tipo di conoscenza, ma soltanto il desiderio. Il tipo di cognizioni richiesto dall'etica non è diverso da qualsiasi altra conoscenza; la sua particolarità sta nel desiderio di raggiungere determinati fini, attraverso una giusta condotta. Naturalmente, se la definizione di giusta condotta deve essere accettata da molti, anche i fini devono essere accettati da molti. Se io definissi giusta condotta quella che accresce i miei redditi, i miei lettori non accetterebbero questa definizione. Tutta l'efficacia di qualsiasi argomento etico sta nel suo contenuto scientifico, cioè nella dimostrazione che una determinata condotta, piuttosto che un'altra, è un mezzo per raggiungere un fine largamente desiderato. Faccio distinzione, però, fra argomento etico e educazione etica. Quest'ultima rafforza certi desideri e ne indebolisce altri. È un procedimento completamente diverso che tratterò più avanti.
Possiamo ora spiegare più esattamente il significato di «vita retta» con cui abbiamo iniziato questo capitolo. Quando dissi: «La vita retta è quella ispirata dall'amore e guidata dalla conoscenza», ero spinto dal desiderio di vivere tale vita nel limite delle mie possibilità, e di vedere gli altri viverla. In una comunità di uomini che vivono ispirandosi a quella formula, sarà soddisfatto un maggior numero di desideri che non dove c'è meno amore o meno conoscenza. Non affermerei tuttavia che questo genere di vita sia «virtuoso» e che il suo opposto sia «peccaminoso», perché queste distinzioni non hanno, secondo me, alcun fondamento scientifico.