Il fariseo disse tra sé: «Se costui fosse un profeta,
saprebbe chi è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». (Lc 7,39)
(rispondo a chi mi domanda perchè sono contro il legalismo e lo attacco con tutte le mie forze, parlo per esperienza)
L’invocazione , mostra con quale atteggiamento possiamo accostarci alla Santa Cena, essa è azione di grazie per la misericordia di Dio che viene rivelata in Gesù Cristo. Uno dei motivi che contraddistinguono il vangelo di Luca è il fatto che in Gesù Dio ha mostrato il suo volto di bontà. Nel racconto della peccatrice, salvata dalla sua fede, tutti noi possiamo rivederci. E a tutti viene rivolto l’invito di proclamare la buona notizia del perdono. Non possiamo contemplare questa scena da indifferenti, perché essa ci interpella sul senso della nostra fede e della nostra vita.
L’episodio della peccatrice non giunge come un fulmine a ciel sereno. Infatti, nei versetti che precedono il brano evangelico , Gesù contrappone ai farisei e ai dottori della legge le persone semplici del popolo e i peccatori che hanno accolto l’esortazione del Battista alla conversione e si sono sottoposti al ravvedimento. [1] Il brano evangelico ne è la conferma. Alla figura della peccatrice si contrappone quella di Simone il fariseo. Non dimentichiamo che Luca è l’evangelista che, più degli altri, ama presentare la «buona novella del regno» come annuncio ed esperienza della misericordia di Dio per tutti, senza altri confini che non siano quelli della mancanza d’amore.
Gesù, contrariamente ai Farisei[2] non teme di essere toccato dalla peccatrice che compie gesti di autentico e umile pentimento. Lavare ed ungere i piedi è compito del servo, dello schiavo. Baciare i piedi era il gesto che esprimeva il massimo ringraziamento verso qualcuno a cui si deve la vita. Gesùnon chiude però la porta al fariseo Simone, ma con la parabola del creditore lo conduce a riconoscere che la salvezza non è frutto di una materiale osservanza della legge, ma della gratuità dell’amore.
Per evitare malintesi è opportuno tenere presente che non ci sono motivi sufficienti per identificare la peccatrice di questo episodio con Maria di Betania,[3]né con Maria di Magdala. Infine non è del tutto superfluo ricordare che al tempo di Gesù i rabbini non si lasciavano servire da una donna. L’atteggiamento di Gesù manifesta anche il superamento di un discepolato esclusivamente maschilista.
Il brano dell’Antico Testamento è stato chiaramente scelto per annunciare il tema evangelico del perdono. L’esordio del brano presuppone la conoscenza della parabola che Natan propone a Davide per fargli comprendere la gravità della sua colpa. È la storia di un uomo ricco che priva un povero dell’unica pecora che possedeva per fare bella figura di fronte ad un ospite.
Gesù userà la stessa pedagogia con Simone il fariseo. Il Vangelo non dice quale fu la reazione di Simone dopo la parabola di Gesù, ma sappiamo che Davide comprese il male compiuto nel fare uccidere Uria per impadronirsi della moglie Betsabea. Davide riconobbe il suo peccato e fu perdonato.[4]
La Parola pone invece sulle nostre labbra il Salmo 31 che, in modo più generale, esprime la beatitudine, la gioia di chi si sente perdonato perché ha riconosciuto le proprie colpe e confidato nella misericordia di Dio. Questo salmo è una eco di un testo : «Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo; chi le confessa e cessa di farle troverà misericordia».[5]
Casualmente il brano della lettera ai Galati si inserisce armonicamente nella riflessione di questo brano del Vangelo. Paolo, lui stesso proveniente dal fariseismo, si pronuncia contro il legalismo rassicurante e afferma che «l’uomo non e giustificato dalle opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo».
Che significa la fede in Cristo se non credere alla forza dell’Amore che si è fatto carne?[6] Non ci si salva semplicemente perché si è meticolosi osservanti delle regole, ma perché si ama. Il cristiano non appartiene alla categoria di coloro che si vantano di avere le mani pulite soltanto perché non le hanno mai usate.
Annunciare
La verità evangelica non si comunica usando la clava, né minacciando castighi e sanzioni. Gesù ha annunciato la verità, conla misericordia e la compassione versotutte le miserie umane senza per questo giustificarle. Sovente noi cristiani, pur in tutta buona fede, diamo l’impressione di essere più solleciti a condannare che non a comprendere e compatire, senza per questo rinunciare a testimoniare con le parole, e soprattutto con l’esempio, la bellezza del progetto di Dio sull’umanità.
Insegnare
Gesù non ha avuto timore di contaminarsi con i peccatori. Anzi proprio per essi il Verbo si è fatto carne e ha dato la vita sulla croce, mescolando il proprio sangue con quello di due briganti. Se il lievito e il sale non stanno nella pasta, non servono.
Il Vangelo non si annuncia separandosi, ma inserendosi nella storia quotidiana con l’assillo e l’amore di Cristo per questo mondo.
Esortare
Siamo sovente tentati d’identificare come buoni cristiani semplicemente coloro che sono fedeli ad alcune norme rituali e alle tradizioni. Il cristiano, cioè il seguace di Cristo che ne condivide i sentimenti e i comportamenti, è colui che, guidato dall’amore, riesce sempre a vedere i lati positivi anche nelle situazioni più disastrate. Il cristiano è colui che sa vedere piuttosto ciò che unisce anziché ciò che divide.
Introdurre al mistero
«La tua fede ti ha salvata; va’ in pace». Le parole conclusive che Gesù rivolge alla donna peccatrice evocano immediatamente le parole del congedo . Anche l’assemblea in modo specialissimo, è un incontro con Cristo che esige la conversione, l’umile confessione del nostro peccato, per poter uscire dal luogo di culto perdonati, rinnovati nell’intimo, capaci di far sperimentare, attraverso la nostra persona, l’amore di Dio a quanti ci incontrano.
Interpretare i Testi
Ho peccato contro il Signore!
2Sam 12,7-10.13
In quei giorni, 7Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: lo ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro.
9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti.
10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittita».
13Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
I libri di Samuele hanno raccolto e tramandato tradizioni storiche e biografiche risalenti al tempo del regno di Davide (1012-972 a.C.). Ai suoi redattori deuteronomisti (VI secolo a.C.) va riconosciuto il merito di aver compiuto quest’operazione con tanta onestà da non tacere neppure su episodi che potevano costituire una pesante diminuzione di fama per il re capostipite della dinastia messianica. Da questi libri infatti emerge una duplice opposta considerazione del re Davide. Da un lato è descritto come un uomo dal cuore fedele al Signore, grande genio militare e politico, realizzatore dell’unità delle dodici tribù d’Israele. Per la benevolenza del Signore e per queste sue prerogative, egli è il destinatario di una promessa che stabilisce un ponte tra la perpetua durata dell’antica alleanza del Sinai e la perennità della nuova tradizione dinastica da lui inaugurata. D’altro lato, però, il testo non tace gli acuti contrasti interiori di questo sovrano, capace di abbinare acutezza geniale a smisurate passioni che lo portarono spesso a versare sangue.
Di tutti i peccati da lui commessi uno in particolare pesa come un macigno sulla coscienza di Davide: egli con studiata iniquità ha orchestrato l’assassinio di Uria l’hittita per coprire il tradimento extraconiugale con Bersabea, la moglie di questo suo leale soldato. Consumato l’adulterio, per non compromettere la propria immagine, il re aveva cercato di nascondere e normalizzare il frutto della loro relazione entrando in un abisso di male, più preoccupato di apparire pulito di fronte all’opinione pubblica che al cospetto di Dio.
Sorprende la coraggiosa denuncia del profeta Natan. Egli un tempo aveva riferito a Davide le promesse del Signore relative alla perennità della sua discendenza e ora, senza reticenze servili nei confronti del potente, mette a nudo la sua coscienza ricordandogli impietosamente la trama degli eventi nei quali s’è comportato come un criminale. Messo di fronte al caso giudiziario fittizio di una infame prevaricazione, il re reagisce con sdegno veemente contro il prepotente disonesto, pronunciando una sentenza di condanna che in realtà ricade sulla sua persona. Se le sue maliziose astuzie potevano nascondere il delitto agli occhi umani, esso non sfugge al Signore che «prova il cuore e la mente»[7] e si fa difensore dei deboli e delle vittime del potere.
L’elenco dei tanti benefici ricevuti dal Signore suona in questo contesto come un’implacabile aggravante, che rende ancora più grande il peccato di Davide: era lui prima la pecora prescelta da Dio e trattata come figlia, ma nella parabola i ruoli s’invertono ed egli è ora il ricco malvagio. Le parole di condanna confermano che l’onda lunga del male compiuto finisce sempre per ritorcersi sul malvagio. In nessuna delle famiglie delle quali si parla nell’Antico Testamento la minaccia di Dio si è avverata in una serie di disgrazie spaventose come nella famiglia e nella discendenza di Davide, la cui storia appare davvero scritta col sangue e con le lacrime.
Se il re fu protagonista di tanto studiata iniquità, è anche interprete di una confessione sincera, provvidenzialmente provocata dalla parola profetica che lo ha condotto a riconoscere la drammatica verità della sua vita: «Ho peccato contro il Signore!». Questa pagina sarebbe davvero angosciante se non si concludesse con un messaggio liberatorio – «Il Signore ha rimosso il tuo peccato» – capace di sciogliere le paralisi del male, far riconoscere la colpa, innescare un cammino di pentimento e penitenza, squarciare orizzonti di novità. L’intera vicenda mostra che la maledizione della Legge, non ha corso là dove il cuore dell’uomo si lascia raggiungere dall’amore misericordioso di Dio.10]
Salmo 31,1-25.7.11
Togli, Signore, la mia colpa e il mio peccato.
È un salmo sapienziale, che esprime al tempo stesso pentimento per il peccato e ringraziamento per il perdono. L’uomo a cui viene perdonato il peccato è dichiarato beato. Nell’antichità il riconoscimento del peccato era legato alla narrazione delle proprie azioni negative, ma anche alla confessione della bontà di Dio. Non riconoscere il peccato significava volontà di persistere nell’iniquità. Perciò al centrò del salmo sta l’ammissione della colpa: «Confesserò al Signore le mie iniquità», assieme alla professione di fede in colui che «ha tolto la mia colpa e il mio peccato». In questo modo Dio viene percepito come rifugio e liberatore: «mi liberi dall’angoscia e mi circondi di canti di liberazione». Per essere resi giusti da Dio, i credenti possono rallegrarsi ed esultare. Gli stessi motivi ricorrono anche nei vangeli, di fronte all’agire di Gesù che libera dal Peccato e dall’angoscia.
Giustificati per la fede di Gesù Cristo
Gal 2,16.19-21
Fratelli, 16sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
19In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
21Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.
Questa ripresa lettera ai Galati, nella parte tralasciata Paolo, provocato a sottolineare la legittimità del suo ufficio apostolico e la verità del suo vangelo, messe sotto processo nelle comunità della Galazia, ci ha offerto uno stupendo sguardo sulla propria autobiografia religiosa narrando la sua chiamata e i primi passi nella vita cristiana. Infatti, dopo la sua permanenza nelle comunità della Galazia, erano qui giunti da Antiochia alcuni cristiani legati ad un giudaismo intransigente e avevano messo in dubbio la validità del suo apostolato adducendo il motivo di differenze teologiche tra la sua predicazione, quella dei primi apostoli e della comunità delle origini. Per spiegare ai Galati l’origine remota di queste contestazioni, Paolo non ha esitato a narrare uno scontro che ebbe ad Antiochia con l’apostolo Pietro, per un comportamento non limpido da parte del primo degli apostoli che aveva creato disagio nella comunità.
Il passo che oggi viene proclamato presenta la conclusione e il vertice di quell’episodio e offre a Paolo l’occasione per annunciare il nucleo più profondo del suo “vangelo”: il grande desiderio di Dio sull’uomo è di portarlo al livello del suo amore e questo è il senso di tutta l’opera di salvezza realizzata da Cristo. Noi siamo salvati – cioè siamo proclamati giusti da Dio – solo abbandonandoci a questo amore, come la peccatrice del racconto evangelico. Detto in altre parole, l’uomo deve liberarsi dalla presunzione di allegare le proprie opere come causa meritoria: solo se si abbandona all’amore gratuito di Cristo, scopre la forza della giustizia divina che lo salva.
L’argomentazione assume toni piuttosto aspri, soprattutto quando Paolo mette sotto accusa la Legge, la cui osservanza – quand’anche fosse rigorosa e generosa – è giudicata impotente a procurare la salvezza. L’apostolo dichiara di aver trovato dentro la Legge stessa le ragioni per le quali deve morire ad essa, allo scopo di vivere per Dio.
L’assoluta priorità dell’azione gratuita di Dio ha conseguenze di notevole peso nel vissuto del credente. La sua fede non è sforzo per acquisire meriti, ma risposta umile che lo impegna in una coerenza esistenziale con il dono ricevuto. Si comprende la singolare affermazione che rappresenta un punto centrale della mistica di Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me»
. Con la sua morte e risurrezione, Cristo crocifisso è la realtà che tutto determina; da questa morte nasce una nuova vita il cui soggetto, pur mantenendo la propria personalità, non è più l’io vecchio e peccatore, ma il Cristo stesso che vive nel credente. Resa “giusta” dalla benevolenza di Dio, l’esistenza del cristiano sarà una vita conforme a quella di Gesù, la sua nuova giustizia sarà l’amore, alla maniera con la quale Cristo ha amato consegnando se stesso per il bene dell'umanità.
Stefania c.
La vita retta
Il fariseo disse tra sé: «Se costui fosse un profeta,
saprebbe chi è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». (Lc 7,39)
(rispondo a chi mi domanda perchè sono contro il legalismo e lo attacco con tutte le mie forze, parlo per esperienza)
L’invocazione , mostra con quale atteggiamento possiamo accostarci alla Santa Cena, essa è azione di grazie per la misericordia di Dio che viene rivelata in Gesù Cristo. Uno dei motivi che contraddistinguono il vangelo di Luca è il fatto che in Gesù Dio ha mostrato il suo volto di bontà. Nel racconto della peccatrice, salvata dalla sua fede, tutti noi possiamo rivederci. E a tutti viene rivolto l’invito di proclamare la buona notizia del perdono. Non possiamo contemplare questa scena da indifferenti, perché essa ci interpella sul senso della nostra fede e della nostra vita.
L’episodio della peccatrice non giunge come un fulmine a ciel sereno. Infatti, nei versetti che precedono il brano evangelico , Gesù contrappone ai farisei e ai dottori della legge le persone semplici del popolo e i peccatori che hanno accolto l’esortazione del Battista alla conversione e si sono sottoposti al ravvedimento. [1] Il brano evangelico ne è la conferma. Alla figura della peccatrice si contrappone quella di Simone il fariseo. Non dimentichiamo che Luca è l’evangelista che, più degli altri, ama presentare la «buona novella del regno» come annuncio ed esperienza della misericordia di Dio per tutti, senza altri confini che non siano quelli della mancanza d’amore.
Gesù, contrariamente ai Farisei[2] non teme di essere toccato dalla peccatrice che compie gesti di autentico e umile pentimento. Lavare ed ungere i piedi è compito del servo, dello schiavo. Baciare i piedi era il gesto che esprimeva il massimo ringraziamento verso qualcuno a cui si deve la vita. Gesùnon chiude però la porta al fariseo Simone, ma con la parabola del creditore lo conduce a riconoscere che la salvezza non è frutto di una materiale osservanza della legge, ma della gratuità dell’amore.
Per evitare malintesi è opportuno tenere presente che non ci sono motivi sufficienti per identificare la peccatrice di questo episodio con Maria di Betania,[3]né con Maria di Magdala. Infine non è del tutto superfluo ricordare che al tempo di Gesù i rabbini non si lasciavano servire da una donna. L’atteggiamento di Gesù manifesta anche il superamento di un discepolato esclusivamente maschilista.
Il brano dell’Antico Testamento è stato chiaramente scelto per annunciare il tema evangelico del perdono. L’esordio del brano presuppone la conoscenza della parabola che Natan propone a Davide per fargli comprendere la gravità della sua colpa. È la storia di un uomo ricco che priva un povero dell’unica pecora che possedeva per fare bella figura di fronte ad un ospite.
Gesù userà la stessa pedagogia con Simone il fariseo. Il Vangelo non dice quale fu la reazione di Simone dopo la parabola di Gesù, ma sappiamo che Davide comprese il male compiuto nel fare uccidere Uria per impadronirsi della moglie Betsabea. Davide riconobbe il suo peccato e fu perdonato.[4]
La Parola pone invece sulle nostre labbra il Salmo 31 che, in modo più generale, esprime la beatitudine, la gioia di chi si sente perdonato perché ha riconosciuto le proprie colpe e confidato nella misericordia di Dio. Questo salmo è una eco di un testo : «Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo; chi le confessa e cessa di farle troverà misericordia».[5]
Casualmente il brano della lettera ai Galati si inserisce armonicamente nella riflessione di questo brano del Vangelo. Paolo, lui stesso proveniente dal fariseismo, si pronuncia contro il legalismo rassicurante e afferma che «l’uomo non e giustificato dalle opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo».
Che significa la fede in Cristo se non credere alla forza dell’Amore che si è fatto carne?[6] Non ci si salva semplicemente perché si è meticolosi osservanti delle regole, ma perché si ama. Il cristiano non appartiene alla categoria di coloro che si vantano di avere le mani pulite soltanto perché non le hanno mai usate.
Annunciare
La verità evangelica non si comunica usando la clava, né minacciando castighi e sanzioni. Gesù ha annunciato la verità, conla misericordia e la compassione versotutte le miserie umane senza per questo giustificarle. Sovente noi cristiani, pur in tutta buona fede, diamo l’impressione di essere più solleciti a condannare che non a comprendere e compatire, senza per questo rinunciare a testimoniare con le parole, e soprattutto con l’esempio, la bellezza del progetto di Dio sull’umanità.
Insegnare
Gesù non ha avuto timore di contaminarsi con i peccatori. Anzi proprio per essi il Verbo si è fatto carne e ha dato la vita sulla croce, mescolando il proprio sangue con quello di due briganti. Se il lievito e il sale non stanno nella pasta, non servono.
Il Vangelo non si annuncia separandosi, ma inserendosi nella storia quotidiana con l’assillo e l’amore di Cristo per questo mondo.
Esortare
Siamo sovente tentati d’identificare come buoni cristiani semplicemente coloro che sono fedeli ad alcune norme rituali e alle tradizioni. Il cristiano, cioè il seguace di Cristo che ne condivide i sentimenti e i comportamenti, è colui che, guidato dall’amore, riesce sempre a vedere i lati positivi anche nelle situazioni più disastrate. Il cristiano è colui che sa vedere piuttosto ciò che unisce anziché ciò che divide.
Introdurre al mistero
«La tua fede ti ha salvata; va’ in pace». Le parole conclusive che Gesù rivolge alla donna peccatrice evocano immediatamente le parole del congedo . Anche l’assemblea in modo specialissimo, è un incontro con Cristo che esige la conversione, l’umile confessione del nostro peccato, per poter uscire dal luogo di culto perdonati, rinnovati nell’intimo, capaci di far sperimentare, attraverso la nostra persona, l’amore di Dio a quanti ci incontrano.
Interpretare i Testi
Ho peccato contro il Signore!
2Sam 12,7-10.13
In quei giorni, 7Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: lo ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro.
9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti.
10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittita».
13Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
I libri di Samuele hanno raccolto e tramandato tradizioni storiche e biografiche risalenti al tempo del regno di Davide (1012-972 a.C.). Ai suoi redattori deuteronomisti (VI secolo a.C.) va riconosciuto il merito di aver compiuto quest’operazione con tanta onestà da non tacere neppure su episodi che potevano costituire una pesante diminuzione di fama per il re capostipite della dinastia messianica. Da questi libri infatti emerge una duplice opposta considerazione del re Davide. Da un lato è descritto come un uomo dal cuore fedele al Signore, grande genio militare e politico, realizzatore dell’unità delle dodici tribù d’Israele. Per la benevolenza del Signore e per queste sue prerogative, egli è il destinatario di una promessa che stabilisce un ponte tra la perpetua durata dell’antica alleanza del Sinai e la perennità della nuova tradizione dinastica da lui inaugurata. D’altro lato, però, il testo non tace gli acuti contrasti interiori di questo sovrano, capace di abbinare acutezza geniale a smisurate passioni che lo portarono spesso a versare sangue.
Di tutti i peccati da lui commessi uno in particolare pesa come un macigno sulla coscienza di Davide: egli con studiata iniquità ha orchestrato l’assassinio di Uria l’hittita per coprire il tradimento extraconiugale con Bersabea, la moglie di questo suo leale soldato. Consumato l’adulterio, per non compromettere la propria immagine, il re aveva cercato di nascondere e normalizzare il frutto della loro relazione entrando in un abisso di male, più preoccupato di apparire pulito di fronte all’opinione pubblica che al cospetto di Dio.
Sorprende la coraggiosa denuncia del profeta Natan. Egli un tempo aveva riferito a Davide le promesse del Signore relative alla perennità della sua discendenza e ora, senza reticenze servili nei confronti del potente, mette a nudo la sua coscienza ricordandogli impietosamente la trama degli eventi nei quali s’è comportato come un criminale. Messo di fronte al caso giudiziario fittizio di una infame prevaricazione, il re reagisce con sdegno veemente contro il prepotente disonesto, pronunciando una sentenza di condanna che in realtà ricade sulla sua persona. Se le sue maliziose astuzie potevano nascondere il delitto agli occhi umani, esso non sfugge al Signore che «prova il cuore e la mente»[7] e si fa difensore dei deboli e delle vittime del potere.
L’elenco dei tanti benefici ricevuti dal Signore suona in questo contesto come un’implacabile aggravante, che rende ancora più grande il peccato di Davide: era lui prima la pecora prescelta da Dio e trattata come figlia, ma nella parabola i ruoli s’invertono ed egli è ora il ricco malvagio. Le parole di condanna confermano che l’onda lunga del male compiuto finisce sempre per ritorcersi sul malvagio. In nessuna delle famiglie delle quali si parla nell’Antico Testamento la minaccia di Dio si è avverata in una serie di disgrazie spaventose come nella famiglia e nella discendenza di Davide, la cui storia appare davvero scritta col sangue e con le lacrime.
Se il re fu protagonista di tanto studiata iniquità, è anche interprete di una confessione sincera, provvidenzialmente provocata dalla parola profetica che lo ha condotto a riconoscere la drammatica verità della sua vita: «Ho peccato contro il Signore!». Questa pagina sarebbe davvero angosciante se non si concludesse con un messaggio liberatorio – «Il Signore ha rimosso il tuo peccato» – capace di sciogliere le paralisi del male, far riconoscere la colpa, innescare un cammino di pentimento e penitenza, squarciare orizzonti di novità. L’intera vicenda mostra che la maledizione della Legge, non ha corso là dove il cuore dell’uomo si lascia raggiungere dall’amore misericordioso di Dio.10]
Salmo 31,1-25.7.11
Togli, Signore, la mia colpa e il mio peccato.
È un salmo sapienziale, che esprime al tempo stesso pentimento per il peccato e ringraziamento per il perdono. L’uomo a cui viene perdonato il peccato è dichiarato beato. Nell’antichità il riconoscimento del peccato era legato alla narrazione delle proprie azioni negative, ma anche alla confessione della bontà di Dio. Non riconoscere il peccato significava volontà di persistere nell’iniquità. Perciò al centrò del salmo sta l’ammissione della colpa: «Confesserò al Signore le mie iniquità», assieme alla professione di fede in colui che «ha tolto la mia colpa e il mio peccato». In questo modo Dio viene percepito come rifugio e liberatore: «mi liberi dall’angoscia e mi circondi di canti di liberazione». Per essere resi giusti da Dio, i credenti possono rallegrarsi ed esultare. Gli stessi motivi ricorrono anche nei vangeli, di fronte all’agire di Gesù che libera dal Peccato e dall’angoscia.
Giustificati per la fede di Gesù Cristo
Gal 2,16.19-21
Fratelli, 16sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
19In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
21Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.
Questa ripresa lettera ai Galati, nella parte tralasciata Paolo, provocato a sottolineare la legittimità del suo ufficio apostolico e la verità del suo vangelo, messe sotto processo nelle comunità della Galazia, ci ha offerto uno stupendo sguardo sulla propria autobiografia religiosa narrando la sua chiamata e i primi passi nella vita cristiana. Infatti, dopo la sua permanenza nelle comunità della Galazia, erano qui giunti da Antiochia alcuni cristiani legati ad un giudaismo intransigente e avevano messo in dubbio la validità del suo apostolato adducendo il motivo di differenze teologiche tra la sua predicazione, quella dei primi apostoli e della comunità delle origini. Per spiegare ai Galati l’origine remota di queste contestazioni, Paolo non ha esitato a narrare uno scontro che ebbe ad Antiochia con l’apostolo Pietro, per un comportamento non limpido da parte del primo degli apostoli che aveva creato disagio nella comunità.
Il passo che oggi viene proclamato presenta la conclusione e il vertice di quell’episodio e offre a Paolo l’occasione per annunciare il nucleo più profondo del suo “vangelo”: il grande desiderio di Dio sull’uomo è di portarlo al livello del suo amore e questo è il senso di tutta l’opera di salvezza realizzata da Cristo. Noi siamo salvati – cioè siamo proclamati giusti da Dio – solo abbandonandoci a questo amore, come la peccatrice del racconto evangelico. Detto in altre parole, l’uomo deve liberarsi dalla presunzione di allegare le proprie opere come causa meritoria: solo se si abbandona all’amore gratuito di Cristo, scopre la forza della giustizia divina che lo salva.
L’argomentazione assume toni piuttosto aspri, soprattutto quando Paolo mette sotto accusa la Legge, la cui osservanza – quand’anche fosse rigorosa e generosa – è giudicata impotente a procurare la salvezza. L’apostolo dichiara di aver trovato dentro la Legge stessa le ragioni per le quali deve morire ad essa, allo scopo di vivere per Dio.
L’assoluta priorità dell’azione gratuita di Dio ha conseguenze di notevole peso nel vissuto del credente. La sua fede non è sforzo per acquisire meriti, ma risposta umile che lo impegna in una coerenza esistenziale con il dono ricevuto. Si comprende la singolare affermazione che rappresenta un punto centrale della mistica di Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me»
. Con la sua morte e risurrezione, Cristo crocifisso è la realtà che tutto determina; da questa morte nasce una nuova vita il cui soggetto, pur mantenendo la propria personalità, non è più l’io vecchio e peccatore, ma il Cristo stesso che vive nel credente. Resa “giusta” dalla benevolenza di Dio, l’esistenza del cristiano sarà una vita conforme a quella di Gesù, la sua nuova giustizia sarà l’amore, alla maniera con la quale Cristo ha amato consegnando se stesso per il bene dell'umanità.
. Con la sua morte e risurrezione, Cristo crocifisso è la realtà che tutto determina; da questa morte nasce una nuova vita il cui soggetto, pur mantenendo la propria personalità, non è più l’io vecchio e peccatore, ma il Cristo stesso che vive nel credente. Resa “giusta” dalla benevolenza di Dio, l’esistenza del cristiano sarà una vita conforme a quella di Gesù, la sua nuova giustizia sarà l’amore, alla maniera con la quale Cristo ha amato consegnando se stesso per il bene dell'umanità.